Auguri Pasquali del Dirigente - a. d. 2024

Pubblicato: 28 marzo 2024

ALLA COMUNITÀ EDUCATIVA 

"L'umanità non crede più alla resurrezione dei corpi. E cerca altre strade per lenire il dolore della scomparsa: l'esplosione della scrittura sul web moltiplica, così, le possibilità di portare qualcosa di noi oltre la morte."
M. Ferraris, Oltre il fiume dell'oblio 

La Pasqua cristiana, come ci ricorda(va) il filosofo citato in epigrafe, ha perso il suo significato originale, in quanto non è più concepita come l'anticipazione di un evento: la resurrezione della carne. Che Cristo fosse risorto significava, dunque, che saremmo risorti anche noi. L'umanità di oggi ha spostato il focus su cose apparentemente più concrete, come l'allungamento della vita, che può trascendere nella ricerca folle di un elisir di lunga vita o finanche dell'immortalità. 
A questo punto che cosa rimane di noi dopo la morte? Solo la fama? Non saprei. Credo che la prospettiva della resurrezione possa essere tuttora attuale e mi viene in mente quando, da giovane docente, feci mettere in scena (davanti al Vescovo!) una rappresentazione in latino -  liberamente ispirata al XXVIII capitolo di Lingua Latina per se illustrata - in cui venivano comparati i miti, nel senso etimologico di racconti, di Cristo e Dioniso/Bacco risorti. In ambedue Ie vicende, infatti, era ed è rintracciabile la combinazione dolore/risurrezione. Gesù vive la sua passione come un calvario di dolore, sino a trovare la morte nella crocifissione. Deposto nel sepolcro, il terzo giorno è resuscitato, per poi ascendere al Cielo, abbandonando la dimensione terrena. Anche Dioniso, nelle diverse varianti del mito, decede tra immani sofferenze, per approdare successivamente ad una nuova vita. Forse la tradizione letteraria più nota risale al  cd. Dionysos Zagreus. Il piccolo Dioniso è raggirato dai Titani con dei giocattoli, tra i quali uno specchio. Non appena il dio si guarda allo specchio ed è intento ad osservare le sue fattezze mondane, i Titani lo fanno a pezzi per cucinarlo. L'essenza di Dioniso continua a sopravvivere dentro i Titani, che decidono comunque di non mangiare il suo cuore, che sarà recuperato e reimpiegato in un rituale (ri)generativo da Demetra.
Se la passione e il dolore sono un chiaro trait d'union fra le due 'figure divine', sono molto diversi il modo in cui questi vengono esperiti e il ruolo che assumono sia nel mito che nel culto. Ogni incarnazione riferita al dio del vino esprime l’essenza stessa della divinità dell’ebbrezza ossia  tanto la passione quanto l’aggressività. Cristo, invece, è 'stoico' dinnanzi alla sofferenza e alla morte, nonostante qualche debolezza che lo rende oltremodo umano; tuttavia, anche ciò appare segno della sua duplice natura, umana e divina, mentre l’accettazione dell’agonia e della morte lo conducono alla liberazione dalla componente umana, che consente la purificazione dal peccato originale al genere homo.
Ad ogni modo, forse è stato F. Nietzsche lo studioso che più ha tentato di indagare e differenziare le figure di Gesù e Dioniso. L’opposizione fra i due viene dal filosofo tedesco individuata nella diversa modalità di interpretare il dolore: interiorizzazione in Cristo, componente esterna in Dioniso, come ben rimarcato da A. Foladori. In questa ottica, Nietzsche intravede nel Messia un essere sensibile, ferito dal mondo, spinto a ritirarsi dentro di sé e a ritagliare uno spazio interno per sé e i suoi seguaci nonché a irraggiarlo nell’eternità. Tutto ciò impedisce la reazione tipica della vendetta ed afferma invece la superiorità dell’amore. In questa prospettiva, la sofferenza è indispensabile come antidoto all’inautenticità del mondo che la genera, connotando il dolore come mezzo per declassare e depotenziare un mondo fittizio. Non a caso, l'evento cristico della resurrezione rappresenta una discontinuità temporale ovvero un momento fondamentale del pensiero religioso, come argutamente evidenziò S. Agostino. Al contrario, Dioniso rappresenta il rovescio di tale concezione. La sofferenza è un'esplosione di vitalità. Le incarnazioni sono destinate a perire nel dolore, perché nessuna di esse è capace di esaurire la forza vitale rappresentata da Dioniso stesso. E questo sottolinea la concezione ciclica della storia propria dei greci (e non solo), per cui risorgere è come l'alternarsi delle stagioni. Non a caso R. Graves ipotizzava che " Dioniso" fosse "in origine... il divino paredro che la dea uccideva ritualmente con la folgore il settimo mese dopo il solstizio d'inverno e che le sue sacerdotesse divoravano. Ciò spiega perché gli venissero attribuite tante madri: Dione... ; Io e Demetra... e Persefone...". 
Ad ogni modo, volendo ripercorrere il punto di vista nicciano, oggi più che mai nutriamo una forte esigenza di miti, da non intendere col filtro di una mera sensibilità filologica o artistica, bensì da considerare come qualcosa che possa offrirci uno spettro di significato condiviso, in grado di (ri)condurci alla nascita di scenari nuovi. In questa prospettiva, il mito è essenzialmente parola, perché dà un nome e un senso agli eventi. La parola è in nuce 'cosmopoietica',  perché crea un ordine,  inspira un significato in ciò che Nietzsche definisce “il selvaggio fiume del divenire”. Ergo, aveva ragione P. Fitzpatrick quando definiva il mito come "il terreno muto che ci consente di avere un diritto unificato e che riunisce le esistenze contraddittorie del diritto in una coerenza di percorso". 

Aggrappiamoci ai miti e continuiamo a sognare un mondo differente che rinasca come la fenice...

Cordialmente,
Il Dirigente 
Prof. S.A.